Pagine

lunedì 10 maggio 2010

LA TENUTA DELLA MINORANZA DELLA CGIL

L'opposizione interna a Epifani non vota il documento conclusivo, e nemmeno la rielezione del segretario, e punta a continuare la sua battaglia. Anche se il congresso si conclude con una sua sconfitta.

Francesco Ruggeri
Liberazione
Siamo entrati col 17% e usciamo con il 17%»: un applauso liberatorio aveva accolto la sera di venerdì questo annuncio di Domenico Moccia, il portavoce della seconda mozione. Dopo giorni di voci su possibili defezioni era stato il segnale che le esperienze avevano dato vita al documento alternativo sarebbero restate insieme anche dopo il congresso ed era salva l’eterogenietà fondante di quella mozione. Così, dopo una nottata convulsa – sia nella maggioranza che nella minoranza per la definizione di nomi e numeri – ieri un’ennesima riunione, subito prima delle conclusioni di Epifani, ha ascoltato la dichiarazione di voto motivata e firmata dai dirigenti della seconda mozione per dire no al documento finale e proseguire un cammino comune per arginare quella che per alcuni potrebbe essere una mutazione genetica del più grande sindacato italiano. Insomma, per dirla con le parole del portavoce, «valeva, vale e varrà la pena» questo stare insieme su punti nodali come l’opposizione agli accordi separati, un modello contrattuale che preveda il referendum vincolante tra i lavoratori, la lotta alla precarietà, l’estensione dell’articolo 18 e dei diritti, la democrazia interna, l’indipendenza dai governi, la contrattazione sulla base dei bisogni e non coi vincoli di accordi separati. Certo quel 17% sembra striminzito visto con l’ottimismo che aveva segnato la presentazione della mozione, lo scorso inverno, al Teatro Valle di Roma. Ma il loro documento è stato presentato solo nel 52% dei congressi locali e, lì dove non c’erano presentatori, s’è registrata spesso una partecipazione al voto massiccia e unanime per il documento di maggioranza. Senza giri di parole, Fabrizio Burattini, uno dei nuovi ingressi nel direttivo nazionale e segretario Cgil di Roma Sud, ammette sia che ci si aspettava di più, sia che alcuni risultati sono inattendibili. A dare vita a una coalizione che supera i confini della sinistra sindacale storica è stato il rigetto dell’«ambiguità sul modello contrattuale – continua Burattini – ma bisogna dire che il vero successo di Epifani è stato quello di avere isolato di nuovo la Fiom». «Dal congresso non è scaturita alcuna sintesi», conferma Carlo Podda, ex segretario della Funzione pubblica, liquidando le voci della possibile defezione dei suoi.
La mozione, infatti, era partita «sullo slancio dello sciopero di meccanici e funzione pubblica il 13 febbraio del 2009 – ricorda Sergio Bellavita, segretario generale Fiom a Parma – e con i numeri, sulla carta, di tre categorie e le firme di tre segretari di camere del lavoro, di Brescia, Venezia e Reggio Emilia». A completare la geografia interna alla mozione ci sono la Rete 28 Aprile e pezzi dell’area Lavoro/società che, in gran parte s’è schierata con la maggioranza. Poi, tra i bancari e funzione pubblica e a Venezia, la seconda mozione ha perso il congresso. Da qui questi numeri che sembrano darle torto. «Dei tre congressi che ho attraversato – prosegue Bellavita – questo è quello che esce più a destra di com’era entrato: nel 2001, invece, dopo una discussione vera, Cofferati aveva lanciato la campagna per la difesa dell’articolo 18, si raccolsero 5 milioni di firme, ci fu la straordinaria manifestazione del marzo 2003. Ora, invece, questa stretta autoritaria sembra funzionale alle prossime scelte antipopolari che la Cgil si appresta a fare». Vista con gli occhi della “due”, lo statuto appena modificato irrigidisce quella che già era una tendenza alla confederalità gerarchica, dall’alto, con l’impossibilità per le categorie di esprimersi prima dell’orientamento del direttivo Cgil. Dunque, si va avanti. Ma come? «La forma tecnica è da decidere», riprende Moccia rimandando a un appuntamento da fissare al massimo entro due mesi. Un modello arriva dai territori e lo spiega a Liberazione Anna Maria Zavaglia, maestra nel torinese ed esponente del magro 7% di delegati provenienti dalla produzione: «Già prima di venire a Rimini abbiamo individuato i delegati della mozione come nucleo di discussione e presenza attiva nella Cgil. Questa mozione è un patrimonio da salvaguardare».

Gianni Rinaldini:"esasperazione e rabbia sono figlie della crisi"- dall'Unità -

La Grecia e l’Italia, le manifestazioni in piazza ad Atene fino ai morti, fino alla tragedia, la protesta operaia a Milano o in Sardegna, protesta che per conquistare attenzione inventa forme di lotta, la «conquista» di un carroponte all’Innse di via Rubattino o l’occupazione all’Asinara, forme di lotta clamorose, dettate dalla paura di fronte alle minacce, alla povertà o all’assenza della politica, ai colpi di mano dei «padroni», che chiudono di nottetempo e nascondono altrove i macchinari. Ne parliamo con il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini, che intanto racconta di una crisi «devastante, assolutamente devastante, al di là delle tante chiacchiere di chi un giorno la vede superata e un altro la vede così così». «Una crisi – insiste Rinaldini – comparabile solo a quella del 1929, il crollo di Wall Street, con una differenza però, al di là delle drammatiche conseguenze, almeno nei paesi democratici (altrove la risposta fu autoritaria: nazismo e fascismo) si individuò una via che condusse alla definizione dell’intervento pubblico e, in Europa, dello stato sociale».

Ma Keynes non è più di moda, ormai, e lo stato sociale è sotto assedio…
«Infatti non vedo all’orizzonte niente di tutto quello. Non lo vedo nella politica tanto di una destra democratica quanto della sinistra, non vedo nessun ripensamento a proposito delle ragioni che ci hanno condotto a questo disastro. Percepisco solo un balbettio di regole da consegnare al sistema finanziario, come se la crisi non fosse assieme crisi di un sistema finanziario e di un modello sociale. Da qui si deve partire per capire una situazione folle come quella che sta vivendo la Grecia, dove succede che a dettare le condizioni dell’assetto sociale, siano il Fondo monetario internazionale o la Banca centrale europea, che hanno espropriato un governo legittimo e cancellato la politica».

Son cose che si cominciano a vedere anche in Italia…
«Queste sono le regole dettate dalle istituzioni finanziarie e, dalle multinazionali… faccio fatica a distinguere. L’Italia? Non siamo affatto oltre la crisi. Anzi, per l’occupazione, siamo nella fase peggiore. Ma la crisi serve a governo e Confindustria per dettare nuove relazioni sociali: si parte con l’accordo separato sul sistema contrattuale, si continua con il collegato sul lavoro, ci si mette in mezzo la riduzione delle tutele sul lavoro e l’aumento della precarizzazione. E presto ci toccherà sentire l’annuncio del superamento dello Statuto dei lavoratori. Basterebbe pensare al collegato sul lavoro e la stessa idea di federalismo, che, come ha spiegato il presidente leghista del Veneto, più che il fisco toccherà materie contrattuali, approfittando peraltro di una scelta del governo di centrosinistra, un errore, che assegnava alle Regioni una titolarità legislativa concorrente anche su “tutela e sicurezza” del lavoro. Il tutto avviene negando la democrazia, perché i lavoratori non possono votare niente, ai metalmeccanici è stato persino impedito di votare il loro contratto, prefigurando un assetto sociale che prelude a un assetto di carattere autoritario della società. In altri termini: una volta risolta la questione sociale, nessuno si può illudere: a quel punto la torsione autoritaria sarà tale fino a colpire la Costituzione».

Nelle fabbriche di tutto questo quanto si avverte?
«Si coglie grande disagio e una frattura totale dalla politica. Vedo un disagio che a partire dalla condizione delle giovani generazioni può andare da qualsiasi parte e questo, come sempre storicamente, è molto pericoloso. Una condizione di disagio che finora, se penso a certe aziende metalmeccaniche e ad altre informatiche, ha trovato una interlocuzione nel sindacato. Ma voglio ricordare un episodio particolare: quello del lavoratore che dopo mesi di cassa integrazione davanti alla moglie si infligge sette coltellate, gridando che non si può andare avanti così… Come non vedere che se viene a mancare la speranza, le reazioni diventano esasperate, anche determinando quell’isolamento individuale che conduce a tragedie di quel genere. I suicidi sono già stati numerosi….».

Nell’esasperazione si può dar spazio a una deriva terroristica?
«Non credo. La situazione non è paragonabile. Altra fase storica, altro momento della politica».

Perché dentro il terrorismo, a costruirne l’ideologia, stava anche la politica…
«Vedo la possibilità di rivolte, nel senso di una esasperazione della protesta in forme particolarmente dure… Sono stato a Pomigliano ad un’assemblea. Si è discusso delle nuove regole che la Fiat vorrebbe imporre. Bisogna sapere che cosa ad esempio significa lavorare sulla linea di montaggio, per capire che cosa significano l’aumento dei ritmi, la riduzione delle pause, i diciotto turni. Prendere o lasciare, dice la Fiat, annullando la negoziazione, annullando la stessa dignità dei lavoratori… Salvo scoprire fra un po’ di tempo che ci saranno molto inidonei per eccesso di sfruttamento. Allora la Fiat, come fa in altri stabilimenti (a Melfi ad esempio) chiederà come liberarsi dagli inidonei, dopo averli spremuti. Ma un rapporto fondato sulla precarietà, sullo smantellamento delle tutele, sull’insicurezza sociale e del lavoro, insomma sull’”usa e getta” dei lavoratori è un rapporto sociale in sé violento».