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mercoledì 5 gennaio 2011

 

Marchionne come i padroni del vapore dell’Ottocento


E lo chiamano accordo storico. Al contrario, la linea adottata da Marchionne e dalla Fiat e sottoscritta dai novelli sindacati gialli Uil e Cisl è una scelta anti-storica che rischia di condannare il nostro paese alla marginalità economica, politica e sociale. Quello che giornalisti maldestri, politici incapaci (quando va bene) e commentatori prezzolati cercano di farci credere è che l’unica maniera per competere nel mondo globalizzato sia ridurre i privilegi (!) dei lavoratori che sono il vero handicap del sistema produttivo italiano. La bella storiella va avanti descrivendo la Fiom come un sindacato conservatore legato a logiche antiquate e Marchionne come moderno eroe, disposto a fare investimenti in Italia nonostante sia più conveniente investire in Serbia ed in Polonia.
La realtà è assai diversa. Cominciamo innanzittutto ad intenderci sul linguaggio di cui, negli ultimi decenni, si sono appropriati astutamente liberisti e padronato. I privilegi che vogliono essere cancellati sono in realtà diritti fondamentali - come il diritto di sciopero che non è disponibile e non può essere modificato attraverso contratti privati - o conquiste storiche del movimento dei lavoratori - pause e malattia - che sono costati lacrime e sangue e sono parte fondamentale di quel contratto sociale che ha permesso alle economie europee di diventare, nel corso degli ultimi sessant’anni, più floride e più giuste. Marchionne non è un innovatore, anzi, è un reazionario della peggior specie ed adotta un modello di relazioni industriali che non ha nulla di nuovo e di moderno. E’ il modello dei padroni del vapore dell’Ottocento che pensano che i lavoratori non siano esseri umani, ma semplicemente fattori di produzione, da spremere, sfruttare e buttar via quando obsoleti o danneggiati. E ci viene pure a raccontare che la lotta di classe non esiste più! La Fiom forse difenderà modelli contrattuali che risalgono a vent’anni fa, ma Marchionne vuol tornare indietro di quasi un secolo. Chi è il vero modernizzatore?
Il problema, però, va oltre i cancelli di Mirafori ed investe l’intero sistema paese. Il modello Fiat è un sistema di ricatto (investimenti in cambio di repressione del movimento dei lavoratori) tipico delle grandi multinazionali, come infatti l’industria torinese sta cercando di diventare. Il modello classico di globalizzazione degli ultimi trent’anni si è basato sullo strapotere del grande capitale che si presentava ai paesi in via di sviluppo con progetti di investimento accompagnati da una serie di clausole capestro: niente scioperi, salari bassi, facilitazioni fiscali. In caso di titubanze del paese ospite, le multinazionali ritiravano l’offerta e sceglievano un paese più malleabile. Era la gara a trovare il paese più schiavo, il famoso dumping sociale che ha caratterizzato lo sviluppo economico diseguale di tanti paesi del terzo mondo.
Una gara che ora coinvolge anche alcuni dei paesi una volta definiti ricchi che si trovano ora davanti ad una scelta dirimente. Accettare il nuovo modello di contratto sociale imposto dal capitalismo internazionale - quello che ha portato alla crisi degli ultimi anni - o rilanciare un approccio diverso, democratico e partecipativo allo sviluppo economico, sociale ed ecologico. I paesi che si danno una prospettiva storica di crescita e che vogliono far parte dell’elite economica e politica mondiale nei prossimi decenni non accettano la competizione sul prezzo, sullo sfruttamento, sulla riduzione dei diritti. Per quella strada non c’è futuro, esisterà sempre qualche centinaio di milioni di indiani e cinesi pronti a ridursi il salario e a rinunciare allo sciopero, alle pause e ai giorni di malattia. Col modello Marchionne, in realtà, si lastrica la strada del sottosviluppo e della povertà, mascherandolo con investimenti che porteranno denaro solo nelle casse del capitale, distruggendo nel frattempo lo stato sociale, la contrattazione nazionale, i diritti dei lavoratori, quegli elementi che hanno caratterizzato la crescita nei decenni di benessere ed hanno attutito l’impatto del declino economico italiano negli ultimi vent’anni.
L’alternativa alla guerra tra vecchi e nuovi poveri è un sistema economico che punti sull’innovazione, sul sostegno alla domanda interna, sul riequilibro tra redditi da capitale e redditi da lavoro. Nei paesi dell’Europa centrale, ricordiamolo, gli operai guadagnano il doppio che in Italia, ricerca e sviluppo assorbono una parte importante della quota di investimento industriale e i padroni del vapore alla Marchionne sono stati messi alla porta senza molti complimenti, come è successo in Germania nei mesi scorsi. In Italia, invece, non solo abbiamo un governo che ha fatto della macelleria sociale il suo tratto caratterizzante e che quindi trova nell’ad della Fiat il suo migliore campione, ma abbiamo pure la maggiore forza di opposizione incapace di cogliere la vera natura del problema e che nella sostanza fiancheggia Marchionne, assumendosi una responsabilità storica non solo davanti ai lavoratori, ma al paese intero.
Il problema del lavoro, del modello di sviluppo, del futuro del paese rappresentano scelte dirimenti in cui il balbettio e l’ignavia non sono ammessi. Lo scontro tra Marchionne e la Fiom impone una scelta chiara: o di quà o di là, tertium non datur. La sinistra italiana riparta dalla Fiom e dal suo coraggio e su questa pietra miliare ponga le basi per la sua rinascita politica. Alleanze e compromessi, su questi punti, non se ne possono fare.

Intervista a Landini dal Manifesto


Il modello Fiat colpisce tutti


 È come al solito tranquillo,Maurizio Landini, segretario generale della Fiom
 il sindacalista più amato e odiato degli ultimi anni. Cominciamo chiedendogli lumi sui diversi interventi sui giornali di lunedì (Di Vico sul Corsera, Farina della Fim) preoccupati di trovare una soluzione per far «rientrare» la Fiom in Fiat. Come se si capisse solo ora l'ernormità dello strappo sulla rappresentanza, se si tiene fuori il sindacato più rappresentativo.
«È evidente che in Italia non c'è una legge sulla rappresentanza. Di fronte al pluralismo sindacale reale, se non c'è una legge che riconosce ai lavoratori il diritto di eleggere i propri delegati e poter decidere sempre sugli accordi che li riguardano, un sistema di relazioni industriali non regge. L'elemento di novità è questo: accordo separato dopo accordo separato, il sistema non tiene perché è un modello antidemocratico che cerca di realizzare un cambiamento di natura del sindacato. Marchionne e la Fiat sono andati anche oltre: siamo al cambio del modello di gestione di impresa, per cui il sindacato esiste solo se aderisce alle idee dell'azienda. Qui c'è la differenza tra un sindacato puramente aziendale o corporativo e un sindacato confederale. Il primo ha il suo orizzonte in quell'azienda lì, e si hanno diritti solo se quell'azienda funziona. Il secondo si pone il problema che un lavoratore, a prescindere da dove lavora, sia dotato di diritti. La novità dell'accordo Fiat non è che vuol lasciare fuori la Fiom e la Cgil - che è già grave - ma che le persone non abbiano dei diritti e non possano decidere. Sindacati importanti come Fim e Uilm, che insieme a noi hanno conquistato i diritti che i lavoratori ancora hanno, accettando una logica di questo genere cambiano la loro natura».
Cambiano anche le prospettive. Non servono davvero quattro sindacati per dire «sì»...

La norma in testa agli accordi di Pomigliano e Mirafiori - eventuali «parti terze» che decidessero di aderire potrebbero farlo solo se tutti i firmatari sono favorevoli - introduce, come negli Usa, il principio che il sindacato può essere presente solo se lo vuole il 50% più uno dei lavoratori. È un modello che non c'entra nulla con la storia europea. Paradossale poi che si voglia importare un modello di relazioni proprio nel momento della sua massima crisi. Una delle ragioni che ha mandato fuori mercato i produttori di auto Usa è che, non esistendo contratto nazionale né stato sociale, giapponesi o coreani hanno avuto mano libera nel produrre lì con salari più bassi. Al punto che anche negli Usa si stanno ora ponendo il problema di costruire un minimo di welfare.
Anche per questo - caso Opel - in Germania hanno respinto l'ingresso della Fiat?

Di sicuro dimostra cosa significa avere un governo che si interessa di politica industriale, che impone il rispetto di regole e leggi. Molti oggi parlano del «modello tedesco». Bene. In Italia c'è uno stabilimento che produce auto per Volkswagen: la Lamborghini. Quell'azienda, la scorsa settimana, ha fatto un accordo con le Rsu che accetta il contratto metalmeccanico del 2008 (l'ultimo firmato da tutti i sindacati, ndr). I tedeschi, qui, per continuare a costruire auto, non hanno scelto il «modello Marchionne», ma il sistema esistente in Italia.
Sembra in discussione anche la credibiltà di Confindustria. Non tutte le imprese possono dire «o si fa come dico io o me ne vado»...

Di sicuro c'è un «rischio imitazione», che può svilupparsi in due direzioni. «Imprese» che non si associano e non applicano nessun contratto, in Italia, già ci sono; è un punto su cui farebbero bene a interrogarsi le forze politiche e sociali. L'apertura alle deroghe al contratto nazionale, poi, anche senza arrivare al punto di Marchionne, implica comunque imprese che ti chiedono, per farti lavorare, qualche diritto o un po' di salario in meno. Tanto più che siamo dentro una crisi che non è finita. E siccome le ragioni che l'hanno prodotta, purtroppo, non sono state affrontate, ecco che le deroghe o il «modello Fiat» indicano una falsa via d'uscita; che può però tentare molte imprese. Comunque aziende importanti hanno continuato a fare accordi con la Fiom, per esempio Indesit, che vede l'impegno dell'azienda a non licenziare nessuno. Oppure l'Ilva di Taranto, dove si sono assunti tutti i lavoratori interinali. Non è vero che in Italia per investire bisogna cancellare leggi e diritti. Viene il sospetto che chi spinge invece su questa linea stia cercando la scusa per dire che in in Italia non si può rimanere. Lo ha ammesso lo stesso Marchionne, quando ha detto che il suo obiettivo resta l'acquisizione del 51% della Chrysler. Dove li prende i soldi? A questo punto le voci sulla vendita di pezzi di marchi o rami d'impresa acquistano un altro senso. Si va verso un rafforzamento o una smobilitazione della produzione di auto in Italia? A noi sembra vera la seconda. Confindustria e Federmeccanica, ora, hanno un problema: non possono continuare a dire che va bene sia la Fiat che il contrario. Le due cose non stanno insieme. La nostra dichiarazione di sciopero generale il 28 vuol dare proprio questo segnale, oltre al sostegno ai lavoratori di Pomigliano e Mirafiori, i più esposti. Chiediamo a ogni singolo metalmeccanico di scioperare per dire con forza che lui non vuole che nella sua azienda succeda quel che sta avvenendo in Fiat. Un messaggio che deve arrivare alle controparti. Se si vuol andare su questa strada si apre un conflitto senza precedenti, sul piano sindacale e su quello giuridico.
E la Cgil? Pensionati e pubblico impiego vi hanno appoggiato, poi anche la segretaria dell'Emilia Romagna. Sta cambiando qualcosa?

Il giudizio di inaccettabilità dell'accordo è comune a tutta la Cgil. Il problema che si sta ponendo è: qual è l'azione sindacale migliore per rispondere a un attacco come quello portato dalla Fiat? Il Comitato centrale della Fiom ha deciso, senza un solo voto contrario, in presenza della segreteria Cgil, che quell'accordo non si può firmare e che il referendum voluto dalla Fiat non è legittimo. Come si tutelano quei lavoratori? Insieme ai compagni di Torino e Napoli stiamo discutendo delle azioni di lotta e legali da mettere in campo. Ma è evidente che le «forme tecniche» non esistono. Gli accordi si firmano oppure no. Lo strumento del referendum per noi deve diventare un diritto universale. Ma deve avere due caratteristiche: i lavoratori debbono poter dire liberamente sì o no (e invece qui avvertono che, se «no», si chiude la fabbrica), e dentro un quadro di regole condivise. 
Ci vuole una legge sulla rappresentanza o basta un «accordo interconfederale»?

Perché un diritto sia esercitabile ci vuole una legge. Quel che sta succedendo non riguarda solo chi lavora a Mirafiori o i metalmeccanici. Serve una discussione esplicita, che faccia i conti con la novità drammatica delle scelte Fiat. Siamo davanti a un attacco senza precedenti che riguarda assolutamente tutti. Mi ha colpito molto che gli studenti, nella loro lotta, si siano resi conto che la cancellazione dei diritti del lavoro riguarda anche loro, ora e in futuro. È una novità assoluta che rimette insieme generazioni che per anni non si sono parlate. Tutta la Cgil dovrebbe essere il luogo di questa discussione. Perché queste idee divengano egemoni nel paese e portino a definire un equilibrio diverso nei rapporti sociali.
Per il 28 si segue lo schema del 16 ottobre anche quanto ad «alleanze»?

È uno sciopero di 8 ore. Una scelta impegnativa in più che chiediamo ai metalmeccanici. Dobbiamo lavorare per informare i lavoratori, essere presenti sui posti. Faremo tante manifestazioni regionali. Ci rivolgiamo però anche a tutti i soggetti che hanno condiviso con noi il 16 ottobre, alle altre categorie, studenti, movimenti per l'acqua, ecc. Insomma a tutti i cittadini che ritengono sia a rischio la Costituzione e i diritti. Vogliamo fare di quella giornata una mobilitazione che dice che un altro modello sociale è possibile e che si può uscire da questa crisi mettendo al centro il lavoro. In ogni città pianteremo delle tende in piazza come luoghi informativi. Incontriamo le forze politiche e non solo. Siamo pronti a parlare con chiunque abbia voglia di confrontarsi con noi.