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martedì 18 gennaio 2011

MIRAFIORI. Referendum, una lezione al paese, di Felice Roberto Pizzuti dal Manifesto

Nella situazione italiana, il risultato del referendum a Mirafiori è una vittoria morale per chi ha votato No e una lezione che gli operai hanno dato al Paese e a quanti, anche tra le forze progressiste e di sinistra, hanno dato segni d'inconsapevolezza del reale valore della posta in gioco alla Fiat e delle sue molteplici dimensioni economiche, di democrazia e etiche.
Sul piano economico, la Fiat ha riproposto la logica che in anni di dibattito è stata riconosciuta come la causa strutturale del declino economico (e non solo) del nostro Paese; essa è consistita nel perseguire con miopia la competitività essenzialmente sul piano dei prezzi - riducendo il costo del lavoro e aumentando la sua flessibilità d'impiego (la cosiddetta corsa al ribasso delle condizioni economico-sociali) - anziché puntare sulla più lungimirante innovazione tecnologica e qualitativa e sul corrispondente maggior impiego di lavoro stabile e qualificato che identificano i paesi nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro ( e dello sviluppo economico-sociale). Sul piano economico aziendale è particolarmente significativo che l'incentivo dato al top management che propone e attua la strategia aziendale sia legato a risultati finanziari di breve periodo (il valore delle stock options) e non ai risultati produttivi; e infatti, le quote di mercato della Fiat sono in caduta libera mentre il valore delle sue azioni crescono!
Il referendum di Mirafiori poneva e pone in discussione anche questioni che riguardano le regole della democrazia del lavoro e della democrazia tout-court. Come si può ammettere un voto cui si partecipa con la pistola puntata alla tempia che minaccia i lavoratori, in caso di esito sgradito all'impresa, di eliminare il posto di lavoro, cioè la fonte di sostentamento per loro e la loro famiglia? Più ancora la vicenda Fiat dovrebbe imporre all'attenzione aspetti morali. La Fiat è guidata da un manager la cui paga base è circa quattrocento volte il salario dei suoi operai (con le stock options il rapporto sale a diverse migliaia di volte), e opera per conto di una proprietà i cui membri storici più "illustri" solo pochi mesi fa hanno accettato una transazione giudiziaria con il fisco italiano che contestava loro evasione fiscale ed esportazione illegale di capitali all'estero per miliardi di euro; così stando le cose, come si può criticare la resistenza dei lavoratori al ricatto di accettare un ulteriore peggioramento delle condizioni minime di lavoro rispetto a quanto avviene nelle altre grandi imprese automobilistiche europee dove i salari sono superiori anche del 30-40%, l'orario di lavoro è inferiore, i bilanci aziendali sono positivi e le quote di mercato sono crescenti? E come è possibile che queste posizioni, che paradossalmente si ammantano di modernità, possano beneficiare di un consenso molto diffuso anche tra le forze progressiste e di sinistra? Quest'ultima domanda rivela essa stessa la situazione di crisi drammatica in cui versa il nostro Paese che è non solo economica, ma anche civile e morale. Se è vero che un uomo è quello che fa, un paese è cosa produce, come lo produce, come assegna e impiega inizialmente le sue risorse (a cominciare dal tempo di formazione, di lavoro e libero), come ripartisce la responsabilità e l'informazione concernenti le decisioni produttive e come ne distribuisce i risultati. Il declino del nostro paese in atto da almeno due decenni è connesso a peggioramenti progressivi su tutti questi piani che concorrono allo sviluppo economico, sociale e civile. I beni prodotti e le tecniche utilizzate sono sempre più "maturi"; ne segue che non abbiamo bisogno di ricerca e di istruzione (i tagli ai finanziamenti della scuola e dell'università non sono un caso e non dipendono solo dalla crisi; come è noto, «la cultura non si mangia» e questo non è più un paese per persone istruite); si cercano invece lavoratori dequalificati da impiegare in modo "flessibile" e basso costo; il reddito e la ricchezza in senso lato crescono meno e necessariamente vengono distribuiti nel modo sempre più sperequato corrispondenteall'organizzazione produttiva; le condizioni dei diritti delle condizioni del lavoro e sociali necessariamente devono essere adeguati al ribasso. Il voto No espresso dagli operai di Mirafiori va inteso come un segnale di resistenza e d'inversione rispetto a questa china; le forze progressiste del Paese non dovrebbero ignorare questo segnale, ma accoglierlo e valorizzarlo. E a proposito di questioni etiche, sarebbe opportuno che la necessità di riportare l'attenzione sulle problematiche connesse alla vicenda Fiat non venisse "distratta" più di tanto dalla deprimente discussione sulle abitudini sessuali del premier, poiché pregiudicare le regole democratiche e la dignità del lavoro è una questione incomparabilmente più grave, che intacca la struttura portante della nostra convivenza. i no al referendum imposto dall'ad Marchionne. I sì, nella consultazione di venerdì scorso, hanno raggiunto il 54% grazie a impiegati e lavoratori notturni. MAURIZIO LANDINI «O si riapre la trattativa o se la Fiat vuole andare avanti, noi metteremo in campo tutte le azioni necessarie, sindacali, contrattuali e anche giuridiche». Lo ha detto ieri il segretario Fiom.

Per Marchionne il lavoro è una commodity e leggi e contratti non esistono

di Giorgio Cremaschi
L’intervista che il direttore de “La Repubblica” ha fatto all’Amministratore Delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha il pregio dell’assoluta chiarezza. Non c’è’ una sola parola nelle due pagine dell’intervista che faccia riferimento alla Costituzione, al Contratto nazionale, allo Statuto dei lavoratori. Per Marchionne semplicemente non esistono. Non a caso tutto il suo ragionamento è fondato sul più puro diritto commerciale. Il lavoro è una merce che deve essere acquistata ai prezzi del mercato internazionale, come il petrolio o il grano. Il lavoro è quella che nel gergo di Marchionne si chiama una commodity, cioè una merce per cui vale solo il prezzo di mercato ma non le specifiche particolarità dei contratti.
Tutto il suo ragionamento ha questa brutalità ed è davvero penoso che poi, alla fine, si rispolveri come goffo contentino, la promessa di aumentare gli stipendi e di far partecipare agli utili. Quest’ultima venne già lanciata nel 1920, alla vigilia del fascismo, dal fondatore della Fiat, Gianni Agnelli. Quanto alla promessa di aumenti è bene ricordare che intanto i salari sono stati calati, cancellando il premio di risultato di 1.200 euro all’anno.
Nelle due pagine dell’intervista ancora una volta Marchionne non dice nulla sui suoi progetti industriali, che a questo punto appaiono sempre più fumosi e privi di credibilità. Mentre parla con chiarezza il gergo delle multinazionali e della speculazione finanziaria, quello che ha fatto sì che con il risultato del referendum salisse il titolo Fiat, indipendentemente dalla produzione effettuata. La proprietà Fiat sta guadagnando con le azioni, e Marchionne con le stock option, anche senza produrre e vendere automobili e questa è la dimostrazione che la strategia di Marchionne è solo di speculazione finanziaria.