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sabato 30 luglio 2011


PATTO PER LA CRESCITA 


Intervista a Luciano Gallino, sociologo 
Si  fa presto a dire «patto per la  crescita». Se gli interessi - retorica  nazionale a parte - sono profondamente divergenti, chi è che nel  «patto» rinuncia alla sua parte?  Il precedente del '92-'93 fa tremare  le vene ai polsi: da allora si è  realizzato quel famoso «trasferimento  del 10% della ricchezza prodotta  dal lavoro ai profitti e alle  rendite». Senza che l'Italia sia affatto  migliorata. Anzi. Ne parliamo  con Luciano Gallino, sociologo e docente a  Torino, tra i più attenti  conoscitori delle politiche e delle relazioni  industriali nel nostro  paese. Come ha letto i contenuti dell'«appello per la crescita»?
Mi   pare che i contenuti non ci siano proprio. Se si parlasse di  contenuti,  quelle associazioni che l'hanno firmato prenderebbero  probabilmente  strade molto diverse. Per alcune i mezzi per riprendere  la crescita  sembrano chiari, l'hanno detto tante volte: occorre  tagliare ancora la spesa pubblica, privatizzare i beni comuni,  abbassare i salari, ecc.  Suppongo che altre forze -per esempio i  sindacati - la vedano  diversamente. Quindi, questa dichiarazione di  intenti non farebbe molta  strada se ci si mettesse davanti ad un'agenda  anche limitata di cose da  fare. Ma firmare un patto non significa comunque accettare che alcuni interessi siano prevalenti su
altri? Sì,   ma non si vede bene quali possano essere. Se c'è un interesse comune  in  questo documento è la critica - direi universale - rivolta al  governo  in carica. Se associazioni che vanno dall'Abi a  Confartigianato, dalla  Cgil a Confindustria firmano un documento del  genere, è un  riconoscimento che la crisi è davvero grave. 
Cosa significa qui «discontinuità»? Vi   si possono leggere varie cose, ma soprattutto che ci vuole un altro   governo. Su questo sono d'accordo con Cofferati (vedi il giornale di   ieri, ndr). Il governo s'è dimostrato totalmente inetto nel rilanciare   la crescita, o perfino per solo discutere delle questioni dello   sviluppo.
Quando si è trattato di far fronte alla crisi ha adottato in   modo totalmente conformistico le ricette delle «teste europee», o peggio   del Fondo monetario; quindi non capisco che cosa si possa chiedere a   questo governo. Se non di andarsene. Il minimo di senso che questo appello può avere è in questa direzione: bisogna cambiare governo. Qualora si dovessero indicare dei contenuti le posizioni finirebbero per   divergere rapidamente. Se la Cisl, e soprattutto la Cgil, non   divergessero, beh, sarebbe una svolta politica e culturale di primissimo piano.
Questo pressante richiamo al '92-'93 fa pensare a   un'accettazione delle priorità di banche e intese. E' una chiave di   lettura possibile?
La Cisl va in questa direzione da molto tempo. Per   la Cgil sarebbe una svolta preoccupante, ma non vorrei fare della dietrologia preventiva. C'è questa dozzina di righe in cui c'è il  riconoscimento della gravità della crisi. Ma o significa che il governo   se ne deve andare, o non capisco come gli si possa chiedere ancora un   «patto per la crescita» diverso dal «tagliare tutto», come ha fatto   finora. Ma c'è un altro modo di rilanciare la crescita in una crisi che è globale?
Sì.   Germania e Francia, tutto sommato, se la passano molto meglio. Lo   scorso anno la Germania ha prodotto 5 milioni di auto sul proprio   territorio, noi solo 600 mila. Un risultato dovuto al fatto che hanno una politica
industriale, fatta di accordi con i sindacati, di   interventi molto significativi come la riduzione d'orario (sostenuta in   piccola parte dalle imprese e in massima parte da governo federale e   land). Più grandi investimenti e sviluppo che invece vedono l'Italia   agli ultimi posti dell'Ocse.Incide anche l'indifferenza verso le scelte di imprese multinazionali - come la Fiat - che stanno abbandonando il paese?
Ho criticato in decine di articoli le scelte della Fiat e la posizione  del  governo. Mentre tedeschi, francesi, americani hanno sviluppato  robuste  politiche che hanno permesso di consolidare la produzione - per  esempio,  proprio di automobili - nel proprio paese. Ben oltre la metà  della  produzione industriale tedesca e francese è realizzata sul  proprio  territorio. A noi la politica industriale manca da decenni, ma  questo  governo non sa nemmeno di cosa si tratti.
Politica industriale  non vuol  certo dire bassi salari o libertà di licenziamento, ma  iniziative che vanno dagli investimenti in ricerca e sviluppo fino al  famoso «lavorare  meno per lavorare tutti».Che, nel caso dei tedeschi,  non è uno slogan,  ma un atto di politica industriale.Sembra paradossale rispetto al dibattito che c'è in Italia...
Qui   si parla solo di aumentare l'orario, gli straordinari, l'età  lavorativa  fino a 70 anni. È il «pacchetto europeo», con cui stanno  sparando  addosso allo stato sociale. Ma la Germania, paese leader in Europa, in casa propria fa l'opposto...Sì.   Ma un conto è contenere i salari quando sono a 2.500-3mila al mese,  una  cosa è farlo quando sono a 1.200-1.300, come da noi. In Germania i   salari «contenuti» dal '95 ad oggi sono aumentati in termini reali del   20%, qui solo del 5%. Non ci si può lamentare se la "la domanda" è bassa. Certo, e in più ci sono centinaia di migliaia di lavoratori in cassa   integrazione che prendono ora solo 750 euro al mese, invece dei 1.200 di prima.
Quest'aria da «tutti insieme sulla stessa barca», è plausibile o c'è molta retorica?
A  un livello molto superficiale, il riconoscimento che la crisi è   gravissima e riguarda tutti, ha un senso. Ma appena si scende sotto la   superficie, i mezzi divergono in modo totale: da un lato tagliare tutto, dall'altro magari aumentare le tasse sui redditi alti o tassare le rendite finanziarie (ci sono manager che magari guadagnano un milione in   questo modo, e sono tassati al 12,5%, mentre le loro segretarie lo  sono  a partire dal 23%). E quindi, o quella «pattuglia compatta» di   firmatari del «patto» va in pezzi oppure - se resta coesa - bisogna fare una constatazione preoccupante: che anche i grandi sindacati, Cgil  compresa, sono entrati nella sfera delle opzioni della destra europea. Che in molti casi sono fatte proprie dai partiti «socialisti» del  Continente...
Sembra il titolo della Cnn di ieri: «Chi paga?»
Pagano sempre gli stessi, su questo non c'è dubbio